Metti un giovedì pomeriggio online

Pubblicato sul blog GT il 16 aprile 2021

Giovedì 15 aprile è andato online l’evento della Cpd cioè la consulta delle persone in difficoltà, la cui storia e mission e tutto potete trovare a questo link. Proprio ieri questa associazione fondata nel 1988 ha compiuto 33 anni di esistenza in vita, perciò anche auguri e complimenti.

Ospite e speaker dell’evento una coppia formidabile – per chi bazzica il variegato e pluricromico mondo della disabilità è notorio che questi due siano portatori di enorme competenza non solo teorica sugli argomenti pertinenti: Carlo Giacobini e Pietro Vittorio Barbieri, che non hanno bisogno di presentazioni e nemmeno link e se non li conoscete usate Google.

Si trattava di una chiacchierata su tematiche cruciali come la segregazione nelle residenze, il caregiving familiare, il lavoro per le persone con disabilità, la famiglia e l’Europa e ringrazio Pietro Vittorio Barbieri per avermi invitato.

Gli spunti erano davvero ottimi e sciorinati senza pesantezza anzi, e questo è un aspetto non trascurabile, in un mondo che è molto pesante, serio, greve e troppo chiuso su sè stesso e a volte sigillato, per cui manco volendolo le contaminazioni positive e costruttive ed innovative riescono a scalfire certe concrezioni di dolore e rabbia che, incontriamo nel maremagno della disabilità italiana.

Uno dei primi temi affrontati da Barbieri è stato appunto il bisogno di rinnovarsi, in questo mondo, perchè c’è una stagnazione – e forse anche una questione generazionale: l’epoca in cui si sono formate le più grandi associazioni e sono uscite le leggi era un’epoca di riforma, in cui la classe politica aveva un solido background culturale, ideologico e, mi permetto di aggiungere, morale, per cui uscirono le più importanti leggi . Ma oggi? Oggi secondo Barbieri non è un periodo di riforma. Del resto siamo anche in un periodo molto critico che ha stravolto tutto quanto.

Mi è piaciuto ascoltare poi che è ora di smetterla con le residenze – dove è normale che si consumino le violenze, perchè la violenza è già insita nel luogo che ti obbliga a svegliarti alla tal ora, a mangiare quello che ti danno etc…. magari prendesse piede la cultura per cui le persone non hanno differenze ma bisogni diversi e quindi non vanno isolate dalla società, ma sostenute, affiancate e rese il più possibile autonome! 

Come sapete la posizione di Genitori Tosti è contro qualsiasi forma di ghettizzazione segregante ed escludente e le residenze per disabili lo sono come lo sono anche i centri diurni perchè non includono anche i normodotati ma accolgono solo persone con disabilità e operatori. Del resto la nostra posizione l’abbiamo ben illustrata quando partecipammo al focus group per il Veneto, organizzato da Fish, che fece la ricognizione in 15 regione italiane e poi raccolse il tutto nel bellissimo libro che fu presentato al congresso di consenso di Roma nel 2017. 

Poi Barbieri ha parlato dei caregiver familiari di come la pandemia abbia fatto esplodere il tema, esponendo tutte le problematiche connesse a questa figura e a questo ruolo, che, a livello europeo è tradotto con l’espressione “informal care(giver)” e gode di tutt’altra attenzione e trattamento.  

A questo proposito su quanto ha aggiunto al tema Carlo Giacobini e cioè che da noi non è riconosciuto niente, serve una legge etc preciserei che il comma 255 della finanziaria 2018 alias L.205/2017 è la definizione giuridica e quindi il riconoscimento a livello legale perchè, se qualcuno ricorda, anni fa, precisamente a partire dal 2012 ci furono ben due class action portate avanti dalle famiglie (sarebbero dovute essere tre ma poi quella di Palermo naufragò), per il riconoscimento della figura del caregiver e dopo la sentenza di Milano, che rigettò il ricorso, il tribunale di Roma invece fece sapere che detto ricorso era irricevibile (chiedo scusa se non uso la terminologia appropriata ma non sono, ancora, un avvocato) perchè da nessuna parte nella nostra “letteratura” legale c’era definizione di “caregiver familiare”  e quindi il giudice non era in grado di giudicare su nulla. Quindi ora abbiamo la definizione legale e se qualcuno, per un qualsiasi motivo fa causa, nessuno può dire nulla perchè il caregiver familiare a livello legale esiste. Non so se ho reso l’idea e ad ogni modo, anche la sentenza del Tribunale di Roma esiste e si può leggere.

Circa il fatto poi che abbiamo un’espressione inglese e non nella nostra lingua è anche una questione peregrina perchè usiamo correntemente e quotidianamente termini stranieri come tablet, menu, garage, autodafè, casta, rider, phon, ad hoc. Perchè dovrebbe darci fastidio? 

Se proprio dovete tradurre (e in bocca al lupo per trovare una definizione soddisfacente) per favore non traducete caregiver con badante: sono due figure assolutamente distinte, con background e finalità assolutamente differenti; la figura di  badante poi è definita, a livello legale nella finanziaria 2011 non ricordo più il comma, ma si recupera, e cosa importante la badante è inquadrata come lavoratore e quindi oltre allo stipendio beneficia di tutto quello che spetta a qualsiasi lavoratore. Il caregiver familiare no. 

Per questo motivo la nostra associazione sta facendo tutta la battaglia che sta facendo per il riconoscimento del caregiver come lavoratore e quindi certo che è necessario il riconoscimento istituzionale che invece Barbieri considera non rilevante: siamo in Italia con regole, usi, costumi prassi, leggi molto diverse dal resto d’Europa e quindi dobbiamo adattarci, o no? 

Molto interessante tutto quanto Barbieri ha detto poi sulle donne caregiver che lavorano, su cosa significa dover accettare il part time, di cui nessuno conosce i risvolti economici e che non è una scelta o una liberazione o una conquista, anzi.  Avrei gradito sentire qualcosa sul telelavoro o smartworking o insomma la modalità di lavorare da casa, che, per esempio avessi dieci anni di meno, prenderei in considerazione ma, dato il mio carico assistenziale h24, adesso, dieci anni dopo e tre figli in totale, è assolutamente improponibile. E mi sarebbe piaciuto ascoltare qualcos’altro sulla platea di donne che appunto non lavorano (cioè non percepiscono stipendio) o hanno dovuto lasciare a causa del careving: tutti i servizi del mondo che si possono attivare sono comunque focalizzati sulla persona assistita e non sul caregiver. E questa è una prospettiva che in pochissimi adottano : anche la  legge a venire o le (poche) leggi in tema sono sempre focalizzate sulle persone con disabilità, mentre invece il destinatario è solo ed esclusivamente il caregiver. Ma anche questa è una carenza culturale difficile da colmare.

Per il resto poi, per quanto io abbia ascoltato tutto l’intervento, è stato difficile seguire il filo a causa del mio figliolone in sedia, accanto a me che manifestava tutta la sua partecipazione urlando e cantando e agitandosi – essendo io caregiver e non potendolo lasciare manco mezzo minuto, condivido anche gli eventi online con lui. Ci fosse la legge e avessi uno stipendio potrei assumere un assistente e ritagliarmi qualche ora di vita mia.

Evento davvero ben fatto, partecipato – ci sono state anche le domande degli ascoltatori: auspico repliche e invito a cercare gli speaker su Fb e seguirli, come si dice oggi.

In foto lo screenshot dell’evento.

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Donne che odiano le donne: smettiamola!

Siamo un paese per cui se tu, donna, decidi di mettere su famiglia e quindi avere un figlio, in automatico devi lasciare il lavoro. Tutti conoscono quella pratica ignobile del foglio in bianco firmato quando le donne vengono assunte, eppure ancora molto poco si fa per rimediare a tutto questo. Per non parlare di quando se, sfidando tutto, decidi di ritornare al lavoro e ti trovi demansionata.

Non esiste una politica articolata a sostegno delle donne, in generale e, in particolare, nulla che le agevoli sul lavoro, parificando la loro situazione a quella maschile.

Siamo un Paese arretrato per cui vige la cultura della cura al femminile, cioè chi sacrifica la propria vita per prendersi cura degli altri componenti della famiglia è sempre la donna.

Il lavoro di cura può essere standard (cioè generare e poi allevare i figlio) oppure straordinario (cioè fare il caregiver h24) come lo svolgiamo noi genitori di figli con disabilità totalmente non autosufficienti. Oppure puoi essere il caregiver di un genitore anziano, un coniuge/fratello/sorella/compagno etc per motivi di patologie invalidanti sia temporaneamente che per sempre.

Non esistono ancora, nel nostro Paese, tutte quelle misure per cui se sei un caregiver, indipendentemente dalla patologia/condizione, puoi comunque svolgere questo ruolo compatibilmente con il tuo lavoro e la tua vita: significa che hai il tempo per fare tutto perchè il tuo Comune attraverso la tua Regione a sua volta sostenuta da legge statali, ha approntato un sistema di servizi, e a domicilio, per cui tu ti puoi allontanare da casa e andare al lavoro oppure impiegare il tuo tempo libero, o curarti a tua volta, o dormire.

Siamo agli albori di tutto un processo che, si spera, porterà il nostro Paese a un livello almeno basico e dignitoso di servizi alla persona e quindi al sostegno delle donne, finalmente, che non devono essere più il sesso debole ma, semplicemente, persone alla pari.

Qualcuno avrà sentito parlare del movimento “il giusto mezzo”, oppure delle iniziative di più Europa o comunque vi sarete resi conto che da qualche anno è in atto una mobilitazione generale, trasversale e non necessariamente femminista ma pro donne, che vuole portare il nostro Paese in linea con quella cosa che si chiama parità di genere, appunto.

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La scuola di nessuno, o quasi

Siamo al 23 ottobre 2020 e dopo Campania e Lombardia anche in altre regioni si ventila la possibilità di chiudere delle scuole attivando la DAD, didattica a distanza.

Senza fare valutazioni più ampie, sul sistema politico-socio-economico che ci sta portando a una situazione di pura discriminazione delle persone con disabilità, e più ampiamente per tutti, seppur sinteticamente vale la pena riflettere su alcuni aspetti, validi non solo per alunn* e student* con disabilità.

Il periodo di lockdown ha restituito la segregazione delle persone con disabilità; nella scuola, chi non poteva seguire la DAD ha di fatto perso metà dell’anno scolastico, con un grosso dubbio su come recuperare il periodo qualora non si segua un programma differenziato e la DAD non sia stata proficua. Ma l’aspetto segregante ha colpito chi non ha potuto seguire la DAD. Da qui la presa di posizione di tutti (scuole, famiglie, associazioni) per una ripresa e prosecuzione con la didattica in presenza; per un esame di come gestire ulteriori possibili situazioni emergenziali per evitare ulteriori discriminazioni; per una revisione dei PEI.

Prescindendo da una valutazione di come si sono utilizzati gli scorsi mesi (profondamente negativa) arriviamo ai nostri giorni con il dibattito che verte sostanzialmente su affermazioni come quelle riportate nelle ordinanze campane e lombarde. La Campania, per tutte le scuole prevede:

“…. è confermata la sospensione delle attività didattiche in presenza per le scuole primaria e secondaria, fatta eccezione per lo svolgimento delle attività destinate agli alunni con disabilità ovvero con disturbi dello spettro autistico, il cui svolgimento in presenza è consentito, previa valutazione delle specifiche condizioni di contesto da parte dell’Istituto scolastico.”

Quella lombarda, forse con una razio più vicina al problema dei trasporti e, quindi, per le sole scuole secondarie di secondo grado, sia meno ghettizzante:

Le scuole …. devono realizzare le proprie attività in modo da assicurare lo svolgimento delle lezioni mediante la didattica a distanza delle lezioni, per l’intero gruppo classe, qualora siano già nelle condizioni di effettuarla e fatti salvi eventuali bisogni educativi speciali.

Su ciò si sviluppa la questione se sia giusto o meno la didattica in presenza per la disabilità e il conseguente dibattito.

Facciamo alcune considerazioni, che ovviamente non esauriscono il problema:

  1. I BES, Bisogni Educativi Speciali, abbracciano un numero di studenti ben più numeroso di quelli con disabilità. Quest’ultima fa parte dei BES.
  2. L’integrazione scolastica prima e inclusione poi, comprende sia gli aspetti didattico-educativi, sia quelli socio-educativi. Gli uni senza gli altri non possono funzionare e non funzionano dove si eludono i principi dell’inclusione scolastica.
  3. La didattica in presenza dei soli studenti con disabilità crea di fatto una scuola speciale.
  4. Ridurre il concetto di didattica in presenza ai soli studenti con disabilità significa ignorare decenni di studi e sforzi pedagogici reali per una didattica moderna e inclusiva per tutti, studenti con e senza disabilità.
  5. La DAD per una parte degli studenti con disabilità può essere anche positiva.
  6. Se è vero che le scuole erano sicure fino alla scorsa settimana, lo saranno ancor più se una grossa fetta di popolazione scolastica seguirà la DAD.
  7. Le scuole, i docenti hanno tutte le possibili strategie per applicare in sicurezza una didattica mista.
  8. Non ci sono divieti affinché ci siano classi delle scuole che continuano a frequentare in presenza per soddisfare i principi normativi, di rango superiore, che assicurino l’inclusione scolastica.
  9. Il PEI e la famiglia sono la bussola per gestire la situazione, anche in caso docenti e assistenti supportino gli studenti al loro domicilio in situaizoni di sicurezza.

Dato che il termine “BES” torna ciclicamente alla ribalta, aggiungiamo e ribadiamo ancora una volta che le recenti leggi di riforma della scuola sono da abrogare, per riprendere da dove il legislatore più attento aveva elaborato la prima versione della Legge 104. Era il 1992. Da allora alcuni passi in avanti son stati compiuti, ma troppi sono stati quelli contrari.

Infine non possiamo non evidenziare che quella dei trasporti era una bomba a orologeria che non è stata gestita con un briciolo di lungimiranza. Oggi l’inettitudine fa pagare il prezzo più elevato ancora alle persone che sono il futuro di un popolo, i giovani, e ancor peggio alla parte più fragile; dando l’ennesimo colpo al sistema educativo pubblico statale, risorsa immensa che stiamo perdendo a favore di una scuola per pochi.

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Superare i ritardi virali

Riflessioni su alcune situazioni delle persone con disabilità durante l’emergenza Coronavirus

L’emergenza Coronavirus ha messo in luce le tante criticità del sistema di gestione socio-sanitario nazionale e le sue ripercussioni sulle famiglie, in particolare su quelle più fragili che vivono direttamente la disabilità. Non fanno notizia, allo stesso modo non la fa abbastanza l’inestimabile pregio del Sistema Sanitario Nazionale, pubblico, che ci è stato tramandato e che nonostante le troppe volontà di privatizzazione ma grazie alla volontà di OSS, infermieri e medici, ci tutela ancor oggi in presenza di questa emergenza. La disabilità insegna proprio a capitalizzare quel meraviglioso tesoro che è il valore di tutta la comunità, il bene di tutti e di ciascuno.

Tra le tante criticità emerse, la questione sollevata da tanti sull’assistenza a domicilio come fattore per limitare l’isolamento delle persone con disabilità e le loro famiglie, deve essere affrontata urgentemente. Cercando però  di evitare di considerarla da prospettive personali o di parte. Non si tratta di “egoismi”: ogni punto di vista è valido e portatore di istanze fondamentali. Si tratta di trovare sempre il sistema per soddisfarle in ogni modo possibile. Si parla prima di tutto delle famiglie dei caregiver familiari, già provate dalla cronica insufficienza del supporto al familiare con disabilità e al genitore; spesso monoparentali e recluse in casa a causa delle difficoltà ad organizzare quell’uscita già limitata per le troppe barriere esistenti e oggi “ufficialmente” vietata anche per la temporanea (speriamo) scomparsa dei servizi ospedalieri dedicati.

L’assistenza a domicilio, sanitaria, socio-sanitaria e scolastica, sia per bambin*, alunn* delle scuole, sia mirata a persone adulte, potrebbe essere una soluzione, ma presenta delle evidenti incongruenze con le misure di emergenza stabilite dal Governo per garantire la salute della collettività. Pur limitando il rischio al rapporto assistente-assistito, quindi evitando il contatto tra gruppi di persone, è infatti impossibile garantire con certezza il contenimento del rischio di trasmissione del virus. 

Con l’eccezione di possibili accordi che rientrano nell’organizzazione della progettualità individualizzata, ma che lasciano aperti non pochi interrogativi sulle responsabilità di eventuali contagi a una o entrambe le parti dovuti al contatto ravvicinato. E senza dimenticare che è imprescindibile che tutti, assistiti e assistenti, abbiano i dispositivi di protezione necessari, sia la informazione e formazione per gestire le varie realtà che possono incontrare, ben sapendo che la certezza matematica di evitare il contagio si ha forse solo in ambienti sterili e con i dispositivi di protezione in uso nei reparti ospedalieri dedicati alle malattie infettive.

La problematica origina dal fatto che una parte, le famiglie, che tutti i giorni convive con una certa emarginazione che arriva appunto agli estremi per i caregiver familiari, si è trovata con il nulla, soli senza alcuna azione di sostegno da parte degli Enti; dall’altra gli assistenti -domiciliari, OSS, educatori, all’autonomia e alla comunicazione- ai quali lo “stipendio” (spesso già di importi troppo bassi nonostante la loro funzione preziosissima e che viene riconoscono solo se l’attività di assistenza è effettivamente erogata) rischia di venir meno con le gravi conseguenze facilmente immaginabili.

Per mitigare la situazione l’idea è stata di prevedere l’assistenza domiciliare in regime di emergenza, senza però poter assicurare l’assenza del rischio di contagio reciproco.

In sostanza, l’emergenza Coronavirus ha messo in evidenza che il sistema era stato organizzato ormai da decenni per fornire un livello sempre più precario a entrambe le parti. E in una situazione come quella odierna i continui tagli all’assistenza hanno fatto emergere le criticità di tutti. 

Come uscirne? 

Solo rivedendo radicalmente la gestione scellerata arrivata sin qui, facendo rientrare le figure professionali degli assistenti nelle categorie già presenti nel pubblico e, in particolare per la scuola, nell’organico del MIUR. Immediatamente.

Ma le criticità non terminano certo qui.

Se e quando nel comparto scolastico l’assistenza scolastica domiciliare non può essere garantita, ogni sforzo deve essere fatto per avvicinare la didattica a distanza alle esigenze di allieve e allievi delle scuole di ogni ordine e grado, in particolare per quelli con disabilità. Ricordando sempre che anche per quella a distanza, una didattica inclusiva avvantaggia tutti gli studenti.

Purtroppo in questi anni una larga parte della scuola non ha lavorato o non è stata messa in grado di lavorare alla diffusione della didattica inclusiva che sfrutta le tante tecnologie disponibili per la scuola a distanza. Per farlo adesso con urgenza le scuole devono organizzare dei gruppi di lavoro con i docenti esperti sul digitale. Iniziare è semplice: sul web è disponibile moltissimo materiale gratuito da siti e social network. Le esperienze a livello nazionale non mancano e si possono sfruttare le offerte di editori e software house attivate recentemente. Sono cose note ai referenti per la disabilità come nei CTS/CTI. Mettiamole in pratica, ma cerchiamo di farlo in modo coordinato organizzando il lavoro: che i GLI e GLO si trovino in videoconferenza per individuare e declinare su questa prospettiva gli obiettivi e le strategie dei PEI, valutando caso per caso se e come sia possibile farlo, studiando le modalità inclusive da mettere in atto, includendo la fondamentale partecipazione degli assistenti, educativo culturali e all’autonomia e alla comunicazione. Sono pratiche didattiche anche di semplice attuazione da parte di chi non ha particolari capacità o desideri tecnologici. 

Basta volerlo fare.

I Dirigenti Scolastici devono istituire dei tavoli di lavoro mettendo in rete le tante risorse sui territori, famiglie e associazioni incluse. 

Per finire il discorso scuola, oggi vengono a galla i danni della “buona scuola”, tra i quali uno dei principali è il taglio dei GLIP, Gruppi di Lavoro Interistituzionali Provinciali, dove si discutevano le strategie a livello territoriale. Oggi più che mai sarebbero stati una fonte preziosa di inclusione dove i vari Enti territoriali (ASL/ATS/ASST, Comuni, Provincia, Associazioni, ecc.) avrebbero potuto lavorare per gestire l’emergenza.

Solo un lavoro concertato può gestire le eventuali impossibilità delle famiglie ad accedere ai contenuti online e alla didattica a distanza, vuoi per connessioni dati inadeguate o per hardware e software che hanno costi da affrontare considerati come non prioritari rispetto alle esigenze primarie di assistenza. 

I dirigenti degli Uffici Scolastici devono convocare urgentemente delle videoconferenze con tutti gli Enti un tempo partecipanti ai GLIP/GLIR; il Governo deve ripristinarli immediatamente. E, in prospettiva futura, il Governo deve eliminare la Legge 107/2017 e tutti i decreti applicativi successivi. 

Credo sia l’unico modo per iniziare ad avvicinare tutti gli studenti e le famiglie, alle tecnologie informatiche permettendo di utilizzarle secondo le caratteristiche di ognuno, secondo il principio della “scuola di tutti e di ciascuno”, anche per la didattica a distanza.

Giovanni Barin
Genitori Tosti, vicepresidente

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